Viviamo immersi nella c.d. “infosfera” ovvero, come richiamato da Luciano Floridi, in quell’insieme sconfinato di mezzi di comunicazione e di informazioni che interagiscono tra di loro: il modo di lavorare, di vendere e comprare, di avere relazioni sociali, di organizzare viaggi e di comunicare, è assorbito quasi del tutto da dispositivi e software, e ciò che poteva apparirci immateriale (il mondo di internet o, meglio ancora, il web in tutte le sue derivazioni) è quanto di più reale possiamo mai aver pensato.
L’immateriale genera spavento poiché ciò che è ignoto rappresenta un confine inesplorato dalla mente, ecco perché cerchiamo di attribuire quella concretezza legata al vissuto e all’esperienza, come ci ricorda sempre Nietsche nel suo “Götzen Dämmerung”.
Ma la società digitale, ancorché immateriale, è quanto di più concreto vi sia.
Forse il termine migliore utilizzato per la nuova Era del digitale è “dataism” e fu richiamato per la prima volta da David Brooks sul New York Times nel febbraio del 2013, in quanto ciò che circonda il nostro quotidiano è un continuo flusso di informazioni che vengono introdotte nella rete in ogni momento, sia quando ci troviamo davanti ad un personal computer, che quando utilizziamo un telefono cellulare, un televisore di ultima generazione, il gps dell’automobile, l’ingresso in una palestra, o quando ordiniamo un oggetto tramite una delle tante piattaforme online; è l’affermazione dell’algoritmo che, combinato con l’insaziabile necessità di dati e di informazioni, inizia la sua storia archiviando gli stessi per poi passare ad una vera e propria rielaborazione, proiettandosi verso l’indipendenza funzionale totale.
L’algoritmo regola molti aspetti della vita quotidiana, e sta entrando in modo stabile anche nella gestione del rapporto di lavoro.
In questo senso è interessante una recente sentenza del Tribunale di Palermo (la n. 7283/2020), che ha rinnovato la riflessione sull’algoritmo quale datore di lavoro 4.0: un superiore gerarchico immateriale, che controlla a distanza la prestazione, misura l’efficienza, ne considera l’impatto economico e fa derivare da ciò le ovvie conseguenze sulla gestione del rapporto di lavoro. In sintesi, la sentenza si inserisce nel dibattito attorno ai ciclo fattorini operanti per le piattaforme digitali di consegna a domicilio (Amazon, Foodora, Deliveroo, ecc.) e per la prima volta riconosce l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato – e non più di tipo autonomo – in quanto il prestatore segue le direttive fornite dalla piattaforma: dove andare, a chi consegnare, in che tempi, ecc. Una vera e propria eterodirezione che – al netto delle conseguenze giuslavoristiche – implica l’affermazione dell’algoritmo quale datore di lavoro